“Non posseggo la parola che salva e redime, non mi ha mai interessato la perfezione e la bellezza, non so neanche che cosa sia”
Imre Kertèsz è nato a Budapest nel 1929 e deceduto nel 2016. In quanto ebreo è stato deportato ad Auschwitz nel ’44, poi trasferito a Zeitz e infine a Buchenwald.
“Essere senza destino” é una ricostruzione autobiografica fatta molti anni dopo, quando Kertèsz sarà ormai adulto. Eppure, scorrendo tra le pagine sembra sempre di essere nei pensieri di quel ragazzo di 15 anni, ignaro di ciò che gli accadrà. Quello che è straordinario è che l’autore scrive in modo sconcertante il suo anno di deportazione. La narrazione è in prima persona e utilizza frasi brevi. Kertèsz ha un modo di scrivere spiazzante, tutto nel campo di concentramento è “naturale” per lui. Le giornate vengono ripercorse in modo semplice e la vita scorre giorno dopo giorno.
Non si tratta del “classico” libro sulla deportazione degli ebrei. Kertèsz non parlerà mai degli orrori visti e subiti, ma racconta della felicità dei campi di concentramento, della fiamma che lo ha tenuto in vita per un anno. Una fiamma che si spegne lentamente, fino quasi a morire. Ciò che tanto lo preoccupava nella vita comune viene evocato per il puro divertimento di sorridere. La sua natura ludica sopravvive nella vita all’interno del lager. “Essere senza destino” è una commedia dell’assurdo. Non c’è odio nei confronti degli aguzzini, ma una sorta di pietas quasi a giustificarne il comportamento, in quanto determinate azioni in determinati luoghi, non possono avere un decorso diverso. E’ tutto ovvio e naturale per il ragazzo.
Cosa intende Kertèsz per destino
Hitler cercava di far apparire come inevitabile destino ciò che inevitabile non era e anzi non dovrebbe essere dovuto accadere. Destino e casualità coprono il nulla che produce cadaveri, devastazioni e infamia. Il “destino” è frutto in realtà di una decisione imposta.
Nel mondo del totalitarismo non c’è modalità di risposta. Resta soltanto la possibilità di un’accettazione passiva. Solo le circostanze avevano reso Kertèsz ebreo, facendo dell’essere ebreo un destino imposto. Quando per un fortuito caso viene liberato, le persone che incontra lo incitano a dimenticare “l’inferno” e “l’orrore” dei lager, ma ”non si può cominciare una vita nuova, soltanto proseguire quella vecchia” e ancora”non esiste assurdità che non possa essere vissuta con naturalezza”. Tutto risulta ovvio e naturale come il tempo che passa inesorabilmente giorno dopo giorno, come naturale è la felicità, “una trappola inevitabile”. Ed è proprio così che si conclude il libro: con la felicità dei campi. ”Perché persino là, accanto ai camini, nell’intervallo tra i tormenti c’era qualcosa che assomigliava alla felicità. Tutti mi chiedono sempre dei mali, degli orrori, sebbene per me, forse, proprio questa sia l’esperienza più memorabile. Si, è di questo, della felicità dei campi di concentramento che dovrei parlare loro la prossima volta che me lo chiederanno. Sempre che me lo chiedano. E se io a mia volta, non l’avrò dimenticato.”
Perché leggerlo
Trama alla velocissima
Le pagine iniziali sono dedicate ai giorni in cui vive a Budapest ed erano già giorni devastanti. Gyurka, non ancora quindicenne, deve salutare il padre che partirà per il campo di lavoro. Dopo poco tempo verrà deportato anche il protagonista. Passerà tre giorni ad Auschwitz e il resto dell’anno tra Zeitz e Buchenwald. La conclusione di queste memorie è il ritorno a Budapest, pieno di incertezze, con i problemi con i vecchi conoscenti.
1 comment
É un libro che mi suscita curiosità mista a sgomento e inquietanti punti interrogativi….